Un limite del pensiero femminista è credere che la violenza di genere sia un problema di uomini e donne. Intervista a Rita segato

Pubblichiamo qui di seguito la traduzione di una intervista alla studiosa femminista argentina Rita Segato realizzata il mese scorso dalla rivista “Conclusión”. L’antropologa, che partecipa attivamente alla rete femminista NI UNA MENOS in latinoamerica, sarà presente in Italia i primi di dicembre per impegni con l’Università degli Studi di Perugia e parteciperà in quegli stessi giorni a Perugia al Convegno sulla violenza di genere organizzato dai Centri Antiviolenza dell’Umbria.

Rita Segato è dottora in antropologia e ricercatrice. Probabilmente è una delle più lucidi pensatrici femministi della nostra epoca. E forse di tutti i tempi. Ha scritto innumerevoli lavori a partire dalle sue ricerche sugli stupratori nel penitenziario di Brasilia, come esperta di genere e di antropologia nello storico processo del Guatemala in cui i membri dell’esercito sono stati giudicati e condannati per la prima volta per i crimini di schiavitù sessuale e la violenza domestica contro le donne Maya del gruppo etnico Q’eqchi ed è stata convocata a Ciudad Juárez per esporre la sua interpretazione sulle centinaia di femminicidi perpetrati in quella città. Il suo curriculum è lungo e impressionante.

Al di là di ogni pregiudizio che grida allo scandalo, Segato ha proposto una analisi profonda sulla violenza mortale contro le donne, intendendo il femminicidio come una problematica che trascende i generi per convertirsi in un sintomo o, per meglio dire, in un’espressione di una società che ha bisogno di una “pedagogia della crudeltà” per distruggere e annullare la compassione, l’empatia, i legami e i vincoli locali e comunitari. Vale a dire tutti quegli elementi che diventano un ostacolo in un capitalismo “predatorio”, che dipende da quella pedagogia della crudeltà che insegna. È in questo senso che l’esercizio della crudeltà sul corpo delle donne, che si estende anche a crimini omofobici o transfobici, tutte queste violenze “non sono altro che l’insegnamento che le forze patriarcali impongono a tutti noi che abitiamo su questo margine della politica, dei crimini del patriarcato coloniale moderno di alta intensità contro tutto ciò che lo destabilizza”(*). In questi corpi si inscrive il messaggio educativo che questo capitalismo patriarcale di alta intensità ha bisogno di imporre a tutta la società.

Non è facile intervistare Rita, una specie di vortice, in grado di collegare con estrema chiarezza e sottigliezza gli argomenti più complessi. Si prende il suo tempo per rispondere, analizza ogni domanda, la snocciola, approfondisce e torna nuovamente su ogni concetto. Ha il proprio ritmo e può essere una sfida.

– Nel quadro dell’allarmante aumento dei casi di violenza di genere, potrebbe approfondire il concetto che ha sviluppato secondo il quale la violenza letale contro le donne è un sintomo della società?

La disuguaglianza di genere, il controllo sul corpo della donna, dal mio punto di vista, ci sono altre femministe che non sono d’accordo, accompagnano la storia del genere umano. Solo che, contrariamente a ciò che pensiamo e quello che io chiamo pregiudizio positivo in relazione alla modernità, immaginiamo che l’umanità cammini nella direzione opposta. Ma i dati non lo confermano, al contrario, sono in aumento. Quindi abbiamo bisogno di capire quali sono le circostanze storiche del contesto. Una delle difficoltà, tra i limiti del pensiero femminista, è credere che il problema della violenza di genere sia un problema tra uomini e donne. E in alcuni casi persino tra un uomo e una donna. E credo che sia un sintomo della storia, degli eventi che attraversano la società. E a questo punto sollevo la questione della precarietà della vita. La vita è diventata immensamente precaria, e l’uomo, che per il suo imperativo di virilità, ha l’obbligo di essere forte, di essere potente, ma non ce la fa più e ha molta difficoltà ad esserlo. E queste difficoltà non hanno a che fare, come si dice generalmente, con il fatto che sia influenzato dall‘emancipazione delle donne, che è un argomento che è stato molto usato, ovvero che le donne si sono emancipate e il ruolo degli uomini si è indebolito e per questo reagiscono così… No. quello che indebolisce gli uomini, che li rende soggetti precari e impotenti è la mancanza di lavoro, la precarietà del lavoro quando lo hanno, la precarietà di tutti i legami, lo sradicamento in diversi modi, lo sradicamento dal contesto comunitario, familiare, locale… insomma, il mondo si sta muovendo in un modo che non possono controllare e li lascia in una situazione precaria, ma non come un risultato dell’emancipazione delle donne, bensì come una conseguenza della precarietà della vita, dell’economia, dell’avere difficile accesso alla formazione, allo studio e alle varie forme di welfare. E questo è collegato a un’altra cosa che intendo ribadire: ci sono forme di aggressione tra uomini che sono anch’esse violenza di genere. Io dico che gli uomini sono le prime vittime dell’imperativo della mascolinità. Con questo non sto dicendo che sono vittime delle donne e voglio spiegarlo chiaramente perché molte volte mi è ha capitato di essere fraintesa. Sto dicendo che sono vittime di un imperativo di mascolinità e di una struttura gerarchica quale è la struttura della mascolinità. Sono vittime di altri uomini, non delle donne. E anche questo voglio che sia chiaro, non è che l’uomo sia diventato un soggetto impotente perché le donne si sono emancipate, bensì è diventato impotente perché la vita è diventata precaria e ciò lo rende impotente.

– Molte donne percepiscono questa violenza come qualcosa di normale. Perché?

Per questo, soprattutto in Spagna, in un primo momento, quando nelle prime campagne per i diritti delle donne iniziarono ad apparire in televisione quelle donne che venivano picchiate, fu molto forte ed fece molto scalpore. Affermare che la violenza domestica è un crimine penso sia stato il più grande passo avanti della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro la donna (CEDAW), vale a dire, che qualcosa che è ritenuta un’abitudine può essere un crimine. È molto difficile, soprattutto nel campo del diritto, fare un passo del genere, perché il diritto è come la santificazione di tutto ciò che è costume in forma di legge. Ma la CEDAW dice che questa pratica è un crimine, non può essere trasformata in legge. In questo caso si è andati nella direzione di comprendere che la violenza domestica, lo stupro domestico sono un crimine. Ora, ciò che dà a noi un modello, una luce per capire meglio tutto questo discorso, è che quando c’è una morte, quando viene ritrovato un corpo, una donna assassinata non c’è mai niente di naturale, né prima, né ora, né mai. E lì vediamo che c’è una difficoltà da parte della legge e dello Stato di avanzare in questo campo. Perché, senza alcun dubbio, sono in continuo aumento i casi di femminicidio, è un vero e proprio genocidio di donne che viviamo in vari modi. E questo lo sappiamo perché ormai abbiamo più di dieci anni di dati statistici raccolti nella maggior parte dei paesi. E per di più gli avanzamenti in ambito legale e forense supportano questa affermazione.

-Lei sostiene che lo stupro è un atto disciplinare, un crimine di potere. Cosa c’è in gioco per l’aggressore sessuale in questo caso?

Beh, questo concetto è estremamente complesso. È molto difficile per la società comprendere a cosa mi riferisco. Molte persone per bene, con un alto senso morale, reagiscono contro di esso e cercano di differenziarsi in fretta da quel soggetto che considerano anormale, criminale, immorale, insomma tutto il male che si deposita su quel soggetto, su quel capro espiatorio quale è l’aggressore… e gli altri uomini si salvano dicendo “io non sono così”. Io su questo ci metto un punto interrogativo. Io credo che quell’ultimo gesto, che è un crimine, è il prodotto di un certo numero di gesti minori che si trovano nella vita quotidiana e non sono reati, ma che sono anch’essi aggressioni. E costruiscono un terreno fertile per provocare quest’ultimo grado di aggressione che è riconosciuto come un crimine… ma che mai accadrebbe se la società non fosse così come è. Può esserci l’aggressione di uno psicopatico, ma il maggior numero di stupri e aggressioni sessuali sulle donne non sono fatte da psicopatici, ma da persone che sono in una società che pratica l’aggressione di genere in mille modi, che non possono mai essere riconosciuti come crimini. È per questo che la mia tesi non è un argomento anti-punitivista nella forma classica, nel senso che non si deve punire o condannare. Ci devono essere leggi e sentenze che solo in alcuni casi arrivano a concretizzarsi. Ma nei nostri paesi soprattutto, nel mondo intero, ma specialmente in America Latina, di tutti gli attacchi contro la vita, non solo riguardo alla violenza di genere, ma tutti in generale, arrivano ad avere una sentenza di giudizio solo una piccolissima percentuale. L’efficacia materiale del diritto è una finzione, si tratta di un sistema di credenze, noi crediamo che il diritto conduce ad una condanna. Però è chiaro che devono esistere il diritto, l’intero sistema giuridico, il giusto processo e la punizione. Quello che dico è che la punizione, la sentenza non risolvono il problema perché il problema si risolve a un livello più basso, dove avviene il gran numero di aggressioni che non sono reati, ma che contribuiscono a rendere l’aggressione una normalità. Nessuno avrebbe preso questa strada se non ci fosse un terreno fertile.

– E perché alcuni uomini prendono questo percorso e altri no? Perché se si tratta di un problema sociale non influisce su tutti allo stesso modo?

Beh, perché siamo tutti diversi… io non posso rispondere a questa domanda ma quello che ti posso assicurare è che i tassi sarebbero inferiori se attaccassimo la base, vale a dire, le abitudini, le pratiche comuni. Non mi riferisco neanche a una cultura dello stupro, della quale si parla molto, in particolare in Brasile. Si parla molto di una cultura violadora. Va bene, ma attenzione perché il culturalismo nell’affrontare questi argomenti gli conferisce una cornice di “normalità”, di abitudine. Così come si fa con il razzismo, per esempio… è un’abitudine. Ho molta paura di quelle parole che finiscono per normalizzare questi problemi.

– In relazione a questo argomento, che lo stupro è un crimine di potere, un atto disciplinare, la questione viene trattata allo stesso modo nel caso di abusi sui minori? Poiché i bambini sono di solito abusati per lo più nei rapporti domestici o da membri delle immediate vicinanze della famiglia, si può dare la stessa lettura del fenomeno oppure occorre una analisi distinta?

Penso che serva una analisi diversa, perché se entra in qualche modo in gioco la libido in una forma tale che non credo che entri nella violenza sulle donne. Non ho approfondito molto questo argomento ma quello che posso dire al riguardo è che l’aggressore, lo stupratore, l’assediante in casa lo fa perché può. Perché esiste anche un’idea di paternità che deriva da una antica genealogia, che è il pater familias, come è nel Diritto Romano, che non era un padre come lo intendiamo oggi, una relazione parentale. Il padre era il proprietario della donna, dei figli e degli schiavi, tutti allo stesso livello. Quindi questo che già non è più così, ma che nella genealogia della famiglia, come noi la intendiamo, persiste… la famiglia occidentale, non la famiglia indigena. La famiglia occidentale che ha alla sua base nella sua origine l’idea di proprietà del padre. Quindi questo è ancora molto evidente. Ho studenti che hanno lavorato su questo tema. Ad esempio, il caso di un pastore evangelico che ha violentato le sue figlie, e ciò che emerge da questo studio è che l’uomo, nella sua interpretazione, era il proprietario di quei corpi. Questo è qualcosa che non è rimasto nella legge, ma sì nel costume. E anche lo stupratore è qualcuno che deve mostrarsi proprietario, capace di avere sotto controllo i corpi. Quindi lo stupratore domestico è qualcuno che accede a questi corpi, perché li considera di sua appartenenza. E lo stupratore di strada è qualcuno che deve dimostrare ai suoi pari, agli altri, ai suoi amici, che egli è in grado di farlo. Essi sono varianti dello stesso principio che vede il possesso maschile in quanto proprietà, in quanto necessariamente potente, in quanto proprietario della vita.

– Secondo la sua esperienza, lo stupratore può essere recuperato in qualche modo con il carcere o con qualche cura?

Non ho mai visto un lavoro di riflessione, non lo possiamo sapere perché il lavoro che dobbiamo fare nella società, che è in primo luogo capire e poi riflettere, non è mai stato fatto. Solo dopo aver terminato il lavoro che ancora deve essere fatto nel sistema penitenziario, possiamo arrivare a quel punto. Non ci sono abbastanza elementi. Non sto parlando di psicopatici. Perché, a differenza di quello che dicono i giornali, la maggior parte delle violenze sessuali non sono perpetrate da psicopatici. La maggioranza degli stupratori sono soggetti ansiosi di dimostrare di essere uomini. Se non si capisce il ruolo dello stupro e il massacro di donne nel mondo odierno, noi non troveremo soluzioni.

Rimangono molte questioni in sospeso… parlare, ad esempio, del ruolo dei media che, attraverso le loro parole, contribuiscono a mostrare pubblicamente l’aggressione alle donne fino alla nausea, rendendo la vittimizzazione delle donne uno spettacolo del fine serata o del dopo messa, riproducendo fino alla nausea i dettagli scabrosi e agendo cosi come il “braccio ideologico della strategia della crudeltà”… Queste e molte altre. Ma ci sarà un’altra occasione. La aspettiamo.

Intervista di Florencia Vizzi e Alejandra Ojeda Garnero

Traduzione di Roberta Pompili

*Estratto del libro “La guerra contra las mujeres”, de Rita Segato.

Questo articolo è uscito sulla rivista online Conclusion il 23 agosto 2017

http://www.conclusion.com.ar/2017/08/una-falla-del-pensamiento-feminista-es-creer-que-la-violencia-de-genero-es-un-problema-de-hombres-y-mujeres/